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Disastri, ovvero quel che resta nasce da un senso di smarrimento condiviso: la percezione di un futuro fragile, in bilico, travolto da trasformazioni che sembrano lasciarci senza voce. Di fronte a questo spaesamento, la scena diventa spazio di resistenza poetica, dove chi è in scena sceglie di prendere parola, di raccontare, di farsi attraversare.

Lo spettacolo si compone come una costellazione di monologhi, frammenti di un mondo ferito che si accendono uno dopo l’altro, portando in scena urgenze diverse — sociali, ambientali, economiche, esistenziali. Una capsula del tempo ci parla dal presente verso un futuro immaginato, che non smettiamo di evocare, interrogare, desiderare.

La scrittura è collettiva, stratificata, disgregata: non cerca soluzioni né armonie, ma si nutre di crepe e contraddizioni. Non per aggiustare il mondo, ma per restituirne la complessità, e da lì, forse, provare a ripartire.

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